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Nel banner particolari di: Xeroritratto di Bruno Munari; Munari 1966, fotografie di Ada Ardessi, Biennale di Venezia courtesy ISISUF Milano; Munari 1950, fotografia di Federico Patellani; Munari con Macchina Inutile 1956, fotografia di Aldo Ballo
 
 
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B. Munari, cover Linea Grafica luglio - agosto 1954

V. Viganò, Munari et le mouvement, in Aujourd'hui n.4 settembre 1955

Catalogo della mostra personale Bruno Munari. Opere 1930-1988, Villa Laura, Cerneglons (Udine), 1988

E. Parodi Bruno Munari. La casa nella casa Casa Arredamento Giardino n. 33/1973

B. Munari Fotografie col pennello Fotografare n. 8 Febbraio 1942

K. Yamaguchi Buongiorno! Bruno Munari Mizue n. 73 May Tokyo 1965

S. Takiguchi a silhouette of Bruno Munari Graphic Design n.3 Tokyo 1960

Bruno Munari Ricostruzione teoriche di oggetti immaginari, Milano 1956

Bruno Munari in Who’s who in graphic art, Zurigo 1962

Bruno Munari, Sotto vetro, Grazia, 5 novembre 1949

Intervista a Silvana Sperati, 2 gennaio 2022

Bruno Munari, Vienimi a trovare presto, abito alla terza magnolia, Corriere della Sera, 5 febbraio 1980

Bruno Munari, Proiezione diretta e a luce polarizzata, in Rivista Internazionale d'Illuminazione 1961

Carteggio Enrico Baj per la realizzazione di una antologica a Milano da dedicare a Munari (zip file 3 Mb)

Réalités Nouvelles, numéro 5 juin 1951 Paris

Catalogo Le persone che hanno fatto grande Milano: Bruno Munari marzo 1983, Milano

Invito per la mostra Libri Illeggibili, Libreria Salto Milano, 1950

Società Italiana del Linoleum, Applicazioni del linoleum per rivestimenti di mobili e parti, Milano, 1936

B. Munari, Movo Modelli Volanti e Parti Staccate Catalogo Movo 1937

B. Munari, Le possibilità espressive formali e cromatiche sperimentate nella stampa della pellicola cinematografica Ferrania 1966

Depliant personale Galleria Nomen Barcellona 1982

B. Munari, Il cinema di ricerca, Gli oggetti a funzione estetica Firenze, 1969

Madornale apparecchio per ottenere la luce, Humor nel mondo, Milano 1949

Invito alla mostra Xerografie Originali, Galleria Serendipity, Roma 1968

S. Fukuda, Y. Yonekawa, Xerography. Bruno Munari's Originals in Graphic Design n.20 1965

L. Vergine, Arte Cinetica in Italia Conferenza Galleria Nazionale d'Arte Moderna Roma 11 marzo 1973

C. Campanini, Dalle macchine inutili alle sculture da viaggio La Repubblica 9 gennaio 2019

A. Tanchis, Le interviste di AD: Bruno Munari, AD aprile 1982

P. Antonello, Le lezioni americane di Bruno Munari Doppiozero 2018

B. Munari, La scoperta del quadrato, a cura del centro P.R. della Mobili Mim, Roma 1962

Sculture da viaggio di Munari, La Notte 19-20 giugno 1958

B. Munari, Pittura, Humor nel mondo 15 agosto 1949

Intervista a Munari, fondo Rinascente - Università Bocconi, 21 maggio 1981

B. Munari, Fantasia materia prima in Tempo 20-27 febbraio 1941

B. Munari, L'arte è una in Tempo 4-11 marzo 1943

R. Carrieri, Munari si diverte in Tempo 27 marzo - 3 aprile 1948

B. Munari, Supplemento gesticolato al dizionario italiano in La Domenica del Corriere 10 agosto 1958

F. Caroli, Munari: sassi carta e un mondo di meraviglie, in Corriere della Sera 20 luglio 1979

B. Munari, Fermare l'immagine, in Tempo n. 206, Milano, 6–13 maggio 1943

D. Buzzati, Il folletto Munari – Quarant'anni di nuove idee, Corriere della Sera, 22 ottobre 1971

Film Festival organizzato da Pontus Hulten: Proiezioni di Munari al Moderna Museet di Stockholm nel 1958

Depliant della mostra collettiva a Krefeld nel 1984

D. Buzzati, Ha fatto un libro strappando le pagine, in Corriere d'Informazione 10 dicembre 1955

Concavo e Convesso, in Domus ottobre-dicembre 1947

B. Munari, Manifesto dei multipli, Centro operativo Sincron, Brescia, 1968

B. Munari, Manifesto dei multipli, Centro operativo Sincron, Brescia, 1970

B. Munari, Guerra e Pace - Si cammina così - Sentirò la mia voce al telefono, in Humor nel mondo n°1, Giugno 1949

G. Kosice, Las búsquedas experimentales de Munari, in Geocultura de la Europa de hoy Ediciones Losange, Buenos Aires, 1959 (espanol)

B. Munari, Tanti saluti con fantasia, in Stampa Alternativa Roma 1987

R. Carrieri, Munari illusionista degli spazi, in Natura nov-dic 1932

B. Munari, L'Abecedario di Munari, Stile Robinson, Una casa a Fiumetto in Stile n. 30 Giugno 1943 Garzanti Editore

Marylin McCray, Catalogue Electroworks (excerpts), International Museum of Photography & Film, George Eastman House Publisher, Rochester N.Y., 1979

B. Munari, La grafica tridimensionale di Max Huber, in Design n. 4, Bergamo 1975

Bollettino del MAC N.1 - Oggetti Trovati

B. Munari, Belle e Brutte, in L'Automobile - marzo 1967

B. Munari, Surrealismo. E’ un film di Grandi Firme, in Le Grandi Firme - giugno 1938

B. Munari, Diagramma, in Orpheus - dicembre 1932

M. Datini jr., Notizie delle arti, in Le Arti luglio -agosto 1970

B. Munari, Dall'individualismo al collettivismo, in Arte Centro Milano, aprile - giugno 1975

Gruppo Q, Munari. Spazio Abitabile, Stampa Alternativa, Roma, 1999

C. L. Ragghianti, in Catalogo della mostra Ricerche visive, strutture e design di Bruno Munari La Strozzina, Palazzo Strozzi, Firenze, 1962

Bruno Munari, Astratto e concreto, in Catalogo della mostra Arte concreta, 9-24 aprile 1983, Palazzo del Ridotto Cesena, Ed. Industria Litografica SILA, Cesena 1983

M. Perazzi, Questo è il mio segreto, non mi arrabbio mai, in La Domenica del Corriere 26 marzo 1983, n.13 anno 1985

A. Segàla, Bruno Munari, in Epoca 28 novembre 1986, Milano, pp. 88-92

A. Linke, Bruno Munari: le regole del genio, in Frigidaire 1987

A. Nosari, Ansia di velocità, in L'Ala d'Italia 1 ottobre, 1938


 
Macchine elastiche



 



Progetto di Macchina Inutile 1940
Collezione Casaperlarte Fondazione Paolo Minoli, Cantù
Foto IKB Donato De Carlo, Cantù



Abbiamo già scritto in altre schede delle macchine inutili ed abbiamo già introdotto il tema della casualità che interviene nel movimento degli elementi della macchina. Munari intuisce che un cinetismo troppo meccanico, troppo ritmico, non spezzato dall'azione del caso è come un arido astrattismo che finisce per tramutarsi in un vacuo decorativismo.

Come ha scritto lo storico d'arte Enrico Crispolti, l'arte di Munari "scatta ogni volta su un moto di contraddizione ironica dei principi (appunto di forma, di comunicazione, di gioco)". [1]

Munari utilizza frequentemente lo schema duale del contrasto tra opposti, come ad esempio quando contrappone la regola al caso. Egli utilizza questo paradosso persino nella denominazione stessa delle opere: si pensi ai negativi/positivi, al concavo/convesso, ai libri/illeggibili, alle xero-copie/originali, alle macchine/inutili o aritmiche.

L'idea è in realtà molto semplice, nasce dalla comprensione teorica che solo dall'equilibrio tra l'evento casuale (o in altri contesti intellettuali, dallo stimolo della fantasia o della serendipità) e la programmazione (la razionalità del pensiero) si può ottenere il massimo di espressività, attraverso un dinamismo di forze opposte che è forse la costante di maggior rilievo in tutta l'opera dell'autore.

In una intervista rilasciata a Claudio Cerritelli l'artista chiarisce che "quello che fa scattare la scintilla credo che sia in molti aspetti la casualità perché quando la casualità incontra la cultura allora possono nascere cose nuove sia nella scienza che nell'arte. Per esempio: di tante mele cadute sulla testa delle persone, soltanto la mela caduta sulla testa di Newton ha incontrato un tipo di cultura che ha fatto nascere una domanda precisa, (perché le mele cadono verso il basso e non di lato) e quindi s'è scoperta la legge di gravità. Il caso è dunque una condizione per molti aspetti indispensabile perché è fuori dalla logica. Con la logica, e quindi con la tecnologia, si può provare qualche cosa che già si pensa che ci sia, mentre con l'intuizione, con la fantasia e con la creatività, grazie anche a questa casualità che gli orientali chiamano zen, c'è un contatto con la realtà diverso che permette di scoprire altre qualità che non portano ad un risultato pratico ma conoscitivo".[2]

Il disegno di Macchina inutile riprodotto mostra perfettamente questo dualismo. Gli elementi della macchina costituiti dalle bacchette di legno – rappresentate dai segni neri di maggior spessore - sono fissate a dei fili di acciaio elastico. La forza elastica mette in movimento casuale gli elementi della macchina, liberi di "danzare", di flettere, di fluttuare nello spazio, di fornire instabilità alla composizione. Una instabilità necessaria a fornire imprevedibilità ad una macchina che altrimenti correrebbe il rischio di risultare monotona.

Le correnti d'aria, l'uso di pesi e del meccanismo della leva, le forze elastiche, l'introduzione di molle usurate, l'urto degli elementi, sono tutti espedienti che servono a Munari per progettare macchine-arte irregolari, alle quali basta davvero poco per sembrare animate, quasi fossero dotate di vita propria.

"Gli artisti devono interessarsi delle macchine […] devono cominciare a conoscere l'anatomia meccanica, il linguaggio della macchina, distrarle facendole funzionare in modo irregolare, creare opere d'arte con le stesse macchine, con i loro stessi mezzi".[3]

Macchine elastiche, meccaniche danzanti. Macchine instabili, imprevedibili, dalla forma indefinita, mutevole. Opere del caso e del progetto, la cui conformazione è determinata dalle condizioni ambientali, proprio come avviene con le nervature di una foglia, il percorso di un fiume, le asperità di una roccia. Macchine naturali? Anche.


[1] Enrico Crispolti, Il caso Munari, in NAC Notiziario Arte Contemporanea, n. 25, Milano, 1969
[2] Claudio Cerritelli, Dialogo a proposito del rapporto tra arte e scienza, in Catalogo della mostra “Elettronica”, Università di Bologna, Grafics Edizioni, 1992
[3] Bruno Munari, Manifesto del macchinismo, in Bollettino Arte Concreta 10, 15 dicembre 1952, Milano






 
Macchina Arte N.1



 



Macchina Inutile 1940-1953
pubblicata sul Bollettino n.11 Movimento Arte Concreta 1953



La tavola grafica "Macchina-arte N. 1" qui riprodotta compare nel gennaio del 1953 sul Bollettino Arte Concreta numero 11. In questo disegno vengono illustrate in dettaglio tutte le componenti di una macchina nota anche con la denominazione familiare di "macchina inutile a giostra".

La genesi di quest'opera è lunga e abbastanza complessa. La sua realizzazione inizia, come documentano alcune fotografie, negli anni '40, ma si presenta nella sua forma finale solo nel 1953.

Non bisogna lasciarsi ingannare dalla denominazione di "macchina inutile" o di "macchina-arte", perché le definizioni in Munari sono spesso sfuggenti e volutamente ambigue. Per le sue caratteristiche strutturali quest'opera è a tutti gli effetti una macchina che con il tempo e le opportune modifiche diviene aritmica.

Inizialmente concepita attorno ad un meccanismo per grammofono, viene a più riprese riprogettata - al punto che per molti anni rimane allo stato di studio - nel tentativo di eliminare il noioso funzionamento rotatorio a velocità costante del congegno, privo, pertanto, di qualsiasi tipo di irregolarità.

Munari introduce nella parte alta della macchina dei bracci a cui sono legati, quasi come fossero delle foglie, dei ritagli specchianti in alluminio ripiegato, mentre nella parte bassa vengono appesi dei rettangoli metallici che ruotando vanno a sbattere contro la base a treppiedi della macchina stessa, provocando quel comportamento anomalo e divertente, da cui il nome ironico – dato dall'artista stesso - di "sbatacchione".

Gli inserti metallici provocano, inoltre, una scomposizione ed una riflessione di immagini dell'ambiente circostante offrendo, durante il movimento della macchina, un ulteriore stimolo visivo di coinvolgimento dello spazio esterno.

Si ricordi che Munari concepisce le sue macchine sempre in rapporto con l'ambiente in cui vengono installate; allo stesso modo anche la macchina-aritmica, collocata in uno spazio che è spesso popolato di movimenti reali e virtuali, riflessioni e rifrazioni, effetti antropomorfi, sonori ed umoristici, è da intendersi sempre come il risultato di una installazione.

Lo humor per l'autore non è solo lo strumento attraverso il quale suscitare il sorriso nello spettatore ma costituisce, allo stesso tempo, la leva per stimolarne il pensiero; è lo strumento grazie al quale verificare sul campo la riuscita spettacolare delle proprie intenzioni poetiche.

Mentre la tecnologia diventa sempre più invasiva, Munari teorizza, non senza un sottofondo ironico, che bisogna fare arte con le macchine.

Questa opera è molto vicina sia nei risultati estetici che nell'approccio metodologico alle macchine dell'artista svizzero Jean Tinguely, il quale dichiarò, senza alcuna reticenza, di considerare Munari un suo maestro.

Munari ricorda, in una intervista rilasciata a Giancarlo Politi, il suo primo incontro con il collega d'oltralpe: "Tinguely un giorno è venuto da me con una Citroen senza il fondo con un libretto dell'Arte Concreta, dove c'era il manifesto del Macchinismo che avevo scritto io e mi ha detto: «Io faccio questo». «Bene – gli ho risposto – allora ti organizzo subito una mostra a Milano». Difatti gliel'ho organizzata allo Studio B24".[1]

L'automobile priva di fondo, con la quale l'artista svizzero arriva a Milano, diverte moltissimo Munari, è una trovata che offre la visione diretta dei meccanismi di funzionamento e di trasmissione dei comandi al motore, un espediente affine all'umorismo delle famose macchine pubblicate da Munari nel 1942 per Einaudi in uno dei suoi primi libri per bambini. In seguito a quell'incontro l'artista regalerà a Tinguely due delle sue Macchine Inutili più rappresentative degli anni '30 e inserirà l'artista svizzero nella propria collezione privata, assieme a Kandinsky, Balla, Arp, Magnelli, Prampolini, Schawinsky ed altri. La collezione viene esposta nel maggio del 1957 a Milano alla Galleria Blu in un curioso parallelo con la collezione privata di Lucio Fontana.


Ricostruiamo brevemente l'atmosfera dell'incontro tra i due artisti, che pur nella diversità mostrano una affinità compositiva, riportando alcune affermazioni rilasciate da Gillo Dorfles in una intervista ad Alberto Fiz. [2]

G. Dorfles: "Anche Tinguely ha fatto parte, sia pure per un breve periodo, del M.A.C., tenendo conto che nel dicembre 1954 ha esposto, su indicazione di Munari, allo Studio d'Architettura B24 di Milano in una significativa mostra dal titolo "Automates, sculptures et reliefs mécaniques de Tinguely". Detto questo, il concetto delle macchine di Tinguely è opposto, anche se complementare, a quello di Munari. L'artista italiano, con le sue Macchine inutili ha realizzato delle antimacchine, metafora concettuale della macchina. Lui, infatti, ha sostituito l'utilitarietà con un meccanismo apparente, virtualizzato, secondo un procedimento nel quale rientrano anche i libri illeggibili, libri virtuali che vengono meno alla funzione del libro. Diverso è il discorso per Tinguely, più scultore di Munari, che ha creato dei veri e propri meccanismi, sia pure assurdi e completamente gratuiti".

A. Fiz: "Tinguely è giunto a Milano giovanissimo, quando non aveva ancora trent'anni. Che tipo di accoglienza ebbe la sua mostra?"

G. Dorfles: "L'artista svizzero era un emerito sconosciuto e la mostra, come del resto tutte le mostre del M.A.C., erano visitate da pochi specialisti e soprattutto venivano regolarmente stroncate dalla stampa ufficiale, in particolare dal critico ufficiale del “Corriere della Sera”, Leonardo Borgese che, pur essendo un uomo molto intelligente, era legato a schemi di arte tradizionale".


[1] G. Politi, Bruno Munari. Le regole del gioco, in Flash Art n. 163 1991, Milano, pp. 105-108
[2] B. Corà, P. Bellasi, A. Fiz, M. Hajek, G. Managuagno (a cura di), Tinguely e Munari. Opere in azione, Editore Mazzotta, Milano 2004





 
Aritmie meccaniche



 



Macchina Aritmica 1951
Coll. priv.



Munari intuisce che la ripetizione compositiva, carente di originalità e fantasia, può condurre la pittura di formazione concretista verso una strada senza uscita. Per questo egli non si irrigidisce mai sulle posizioni teoriche di un astrattismo puro, tutt'altro, egli si preoccupa di sfruttare la casualità che viene impiegata per demolire il rigore troppo razionale. Lo storico Enrico Crispolti ci ricorda in un suo breve ma famoso scritto quanto dichiarato da Munari: "voglio andare a vedere che cosa c'è oltre l'arte astratta, non credete che queste esperienze si superino tornando indietro".[1]

Nlle Aritmie meccaniche l'energia elastica di una molla, soprattutto se consunta e logorata dall'uso, serve a generare un movimento incostante, casuale, necessario a rompere la monotonia di una rigorosa programmazione cinetica. Munari sintetizza in uno slogan - la regola e il caso - la formula necessaria ad allontanare l'arte concreta da un rigore algoritmico che induce tanti artisti, anche molti dei compagni di viaggio del Movimento Arte Concreta, a ripetersi inutilmente.

La regola e la fantasia, la progettazione e l'imprevisto, sono due opposti fondanti, ai quali Munari aggiunge una punta di ironia, quanto basta a de-mitizzare l'arte e la creazione artistica, demolendo ancora una volta il mito futurista della macchina, come già ha fatto negli anni '30.

La macchina di Munari, infatti, è costruita a partire dal recupero di reperti tecnologici che vengono riciclati (un meccanismo di sveglia, un filo di acciaio inossidabile, una pallina di bachelite, una molla, ecc.), ed è resa un poco umana dal suo comportamento buffo, ottenuto proprio dal movimento casuale di alcuni dei suoi componenti.

La macchina aritmica è un'opera che richiede l'interazione attiva del pubblico; in particolare è previsto il caricamento di un meccanismo a molla, necessario a sprigionare quella forza elastica, che una volta rilasciata secondo un opportuno dosaggio di irregolarità, è in grado non solo di mettere in movimento l'opera stessa, ma anche di renderne aleatorio il suo comportamento. Un comportamento caratterizzato da un movimento agitato e goffo che consente alla macchina di offrire di sé uno spettacolo che non è esagerato definire, fino agli ultimi sussulti finali, quasi vitale.

Nelle recenti esposizioni il funzionamento delle macchine aritmiche è precluso allo spettatore per assicurare quel riguardo necessario a conservare e preservare intatte le opere in questione. Ai fini di una comprensione del comportamento delle macchine aritmiche è utile la visione di un cortometraggio, della durata di 5 minuti, realizzato nel 1986 dall'artista fotografo Davide Mosconi e finanziato dalla IBM, dal titolo "Aritmie meccaniche" in cui, nelle immagini che scorrono e nei suoni catturati, c'è ben rappresentata tutta la poetica, la leggerezza, lo humor del pensiero munariano.

Le prime Macchine aritmiche sono datate 1951, ma vengono esposte in importanti mostre collettive solo alcuni anni più tardi; in particolare su richiesta del critico Pontus Hulten, grande estimatore del lavoro di Munari, al Kaiser Wilhelm Museum di Krefeld nel 1960 ("Multiplizierte Kunstwerke"), allo Stedelijk Museum di Amsterdam ("Bewogen Beweging"), al Moderna Museet di Stoccolma ("Rosele I Konsten") ed al Louisiana Museum di Humlebaek (Danimarca) nel 1961, ed infine al MoMA di New York nel 1968, nella famosa mostra "The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age", curata appunto dal critico svedese.

Le Macchine aritmiche create negli anni '50 non sono molte, ma queste opere d'arte testimoniano un lungo processo teso al raggiungimento di una sintesi tra la necessità di darsi delle regole generative e, dall'altra, l'esigenza contrastante di rompere la regola, introducendo un elemento aleatorio come, ad esempio, la forza elastica.


[1] Enrico Crispolti, Il caso Munari, in NAC Notiziario Arte Contemporanea, n. 25, Milano, 1969


 
Ricostruzione teoriche di oggetti immaginari in base a frammenti di residui secondo un metodo di
indagine casuale sulle forme, le materie, le strutture


 



Ricostruzione teorica di un oggetto immaginario 1956
Courtesy Fondazione Jacqueline Vodoz Bruno Danese, Milano
Fotografia di Roberto Marossi



Bruno Munari nel 1944 , riprendendo una serie di articoli apparsi negli anni precedenti sulla rivista Tempo, pubblica per l'editore Domus il libro "Fotocronache. Dall'isola dei tartufi al qui pro quo", un libro dedicato all'importanza dell'impiego della fotografia nella comunicazione visiva, un libro in cui, attraverso una serie di brevi racconti, vengono svelati molti trucchi della fotocomposizione e del fotogiornalismo.

Nel racconto "A che gioco giochiamo?" l'autore ci parla della sua passione estetica di collezionista di sassi.
"I sassi sono giocattoli forse un po' primitivi però alla portata di tutti i bambini. Vi dirò che piacciono molto anche a me. Ne ho una bella collezione (non certo come quella del museo di storia naturale, altra cosa la mia: i sassi considerati come piccole sculture astratte, per intenderci Arp)." [1]

Con la celebrazione delle proprietà estetiche dei sassi viene dato rilievo, da un lato, al contributo del caso nelle determinazione delle conformazioni naturali più differenti e "fantasiose", dall'altro, alla volontà dell'artista di corrompere, attraverso un procedimento più mentale che visivo, dalle intenzioni fortemente de-sacralizzanti, la serietà presunta di molta arte contemporanea.

Qualche anno più tardi, nel dicembre del 1951, Munari presenta una intera mostra di "Oggetti trovati" presso la Saletta dell'Elicottero del Bar dell'Annunciata, a Milano ,un bar che diventa per un certo periodo la sede principale per le collettive degli artisti del Movimento Arte Concreta.

L'evento ha un peso rilevante nel percorso artistico ed anche espositivo di Munari perché ci presenta già in nuce il suo paradigma; quel paradigma che darà luogo in seguito a personali, diventate famose, o a installazioni di spirito pedagogico, tra le quali bisogna ricordare: il "mare come artigiano" (oggetti trovati sulla spiaggia), "da lontano era un'isola" (mostra di sassi raccolti sulle spiagge liguri), "il museo immaginario delle isole eolie" (frammenti raccolti durante le vacanze alle isole eolie), "le ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari" (raccolte di frammenti di origine incerta e di uso ignoto che vengono completati graficamente dalla fantasia dell'artista), "i fossili del 2000" (frammenti tecnologici di oggetti dismessi, immersi nel perspex a futura conservazione e memoria).

Il critico Guido Ballo recensisce la mostra cogliendone il senso fondante: "Nella nuova saletta dell'Elicottero, al bar della Annunciata in via Fatebenefratelli 22, Munari espone la collezione degli "oggetti trovati". Gli oggetti esposti si lasciano guardare per la prima volta in modo nuovo, rivelando le loro diverse nature e indicando come segnali stradali varie vie alla fantasia degli artisti che cercano un mezzo inedito, contro ogni scuola o accademia, vecchia o nuova. [...] L'incontro con Munari è sempre piacevole e pieno di sorprese. Munari è noto ormai perché, con intelligenza e spirito inventivo, ha saputo rompere alcuni schemi già costituiti, cercando di far porre l'occhio dello spettatore da nuovi punti di vista. In questa mostra egli sembra prendersi gioco delle tendenze artistiche – nuove e vecchie – presentando oggetti che, per il solo fatto di essere “scoperti” e visti con occhio particolare, entrano in un nuovo gusto d'arte: un pezzo di corteccia, dei sassi, un pezzo di rete metallica, delle valvole; questi oggetti acquistano una luce nuova per il modo come sono presentati. In questo senso Munari resta su un piano di regìa e offre delle nuove lenti per ritrovare, in oggetti che per altri possono essere banali, delle piacevoli immagini di gusto."[2]

E il famoso architetto Ernesto Nathan Roger, già direttore di Domus e Casabella, aggiunge: "Trovare è la conseguenza di cercare. Si dice: chi cerca trova ma è vero solo per poco. E' vero per coloro che quando cercano qualcosa di fuori ne hanno già una parte dentro di loro. Questo trovare è un ricreare o, almeno, uno scoprire e un confessarsi".[3]

Munari riutilizza i prodotti della natura (sassi, residui lavorati dal mare, prodotti del bosco) o frammenti di oggetti per elevare questi ultimi ad una nuova funzione estetica, offrendoli agli occhi - non più innocenti - dello spettatore adulto, o anche per mostrare la casualità delle forme all'interno di un contesto di recupero pseudo-archeologico, in cui il vero motore di ogni composizione è la fantasia creatrice dell'artista e dove il processo di rielaborazione estetica si presume stimolante per la fantasia stessa dello spettatore.

I paleontologi trovano ogni tanto nei loro scavi un qualche frammento di animale che gli esperti usano per cercare di ricostruire l'intero animale. Trasportiamo – ci suggerisce Munari – il procedimento nel campo dell'arte, provando a ricostruire con la fantasia un corpo ignoto e fantastico.

"Quello che ne risulterà non sappiamo bene cosa sia, a che mondo appartenga; forse appartiene solo al mondo dell'estetica e della fantasia. Ecco come si procede: si prendano alcuni pezzi di carta nera, colorata, da pacchi, da macellaio, un foglio di musica, uno straccio, qualunque cosa a caso: uno di questi lo si rompe in due o tre pezzi e lo si lascia cadere sopra un foglio di carta da disegno. […] Gli oggetti (i frammenti) così caduti sul foglio assumeranno una posizione casuale. Si controlla questa disposizione e, dopo una lunga osservazione, può darsi che ci sia qualcosa da spostare, ma non per una ragione logica, bensì secondo «la regola del caso», come dice Hans Arp. Bisogna «sentire» qualcosa che ci fa muovere la mano. Bene, fatti questi eventuali spostamenti, si comincia a collegare i vari pezzi".[4]

Il procedimento ha innegabili collegamenti con la poetica di Arp, Dada e il concettualismo di Duchamp, anche se in Munari c'è sempre un aspetto di forte coinvolgimento, i suoi lavori inducono a provare, comporre, fantasticare, giocare, ironizzare, sorridere.

Qualche anno dopo la mostra degli "Oggetti trovati", più precisamente nel 1955, in agosto durante le vacanze alle isole Eolie, Bruno Munari allestisce un Museo Immaginario. Con il figlio esplora un sito archeologico abbandonato dove vengono raccolti alcuni frammenti di origine incerta ed altri oggetti più comuni (un pezzo di legno cotto dal sole, il coperchio tondo in ferro della cisterna di acqua piovana, una radice secca). Questi oggetti trovati diventano spunti per rifacimenti di oggetti immaginari, come la ricostruzione di un intero pirata in base a una scheggia di gamba di legno trovata sulla spiaggia di Drautto a Panarea. Il gioco si completa con una vera e propria inaugurazione del Museo Immaginario delle isole Eolie.

"Qualche fiasco di malvasia e un po' di mandorle del giardino bastarono per quel vernissage che verso il tramonto divenne assai affollato, di amici cari [...], tutti però affascinati da quel gioco di para-archeologia che sicuramente contribuì a modificare il nostro modo di pensare i rapporti tra passato e presente, e il nostro rapporto con il concetto stesso di museo".[5]

Nel 1960 viene organizzata a Venezia a Palazzo Grassi, curata dai critici Willem Sandberg e Michael Tapié ed allestita con la collaborazione, tra gli altri, di Lucio Fontana, Enzo Mari e Bruno Munari, la mostra "Dalla natura all'arte".

Munari espone anche in questa occasione rocce, sassi e tronchi. Sul Catalogo alcune fotografie documentano l'allestimento, in cui i manufatti della natura diventano a tutti gli effetti protagonisti dell'esposizione in qualità di oggetti d'arte.

Ricordiamo l'evento con le parole del critico Gillo Dorfles: "L'occasione era quanto mai preziosa per fare il punto, non solo sui rapporti tra l'arte - d'oggi e di ieri, o di sempre - e la natura, come ispiratrice ed emanatrice di forze formali e formative; ma anche per cogliere e definire il rapporto tra processo formativo naturale e processo formativo umano. [...] Un tentativo in questo senso è stato abbozzato nelle tre salette introduttive allestite con mirabile fantasia da Munari dove forme naturali sono state proiettate, ingrandite e inquadrate così da costituire degli scenari naturali già prossimi a certe forme rintracciabili in molta arte dei nostri giorni".[6]

Il processo formativo naturale viene studiato a lungo da Munari e di questo studio abbiamo una importante testimonianza con le lezioni tenute ad Harvard nel 1967, confluite successivamente nel libro "Design e comunicazione visiva", edito l'anno seguente. Ma c'è anche il processo formativo umano centrato sulla fantasia come anomalia della regola, del progetto, come contrappeso che talvolta sconfina nel non-sense dadaista attraverso aspetti ludici, ironici, paradossali.



[1] Bruno Munari, Fotocronache. Dall’isola dei tartufi al qui pro quo, Gruppo Editoriale Domus, Milano, 1944
[2] Guido Ballo, Munari all’Elicottero, Avanti!, 5 dicembre 1951
[3] Ernesto Nathan Rogers, Trovare è la conseguenza di cercare, Bollettino Arte Concreta N. 1 , 1 novembre 1951
[4] Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966
[5] Alberto Munari, Con mio padre a Panarea, in Ingannare il tempo. Bruno Munari archeologo, Edizioni Corraini, Mantova, 2007
[6] Gillo Dorfles, Naturale e umano nel processo formativo, Domus n. 371, 1960





   
 
Strutture modulari infinite



 



Strutture Continue 1959



L'interesse di Bruno Munari verso un'arte moltiplicata, cioè prodotta in serie secondo criteri industriali, arriva da molto lontano. Tra le motivazioni di questo coinvolgimento teorico certamente vi è l'intenzione di sostenere e favorire l'ampliamento costante del pubblico, e di conseguenza vi è anche la necessità di abbassare i prezzi delle opere rendendole più accessibili. L'artista desidera avvicinare il pubblico al linguaggio sperimentale dell'arte, così troppo spesso frainteso, offrendo oggetti a funzione estetica, il cui costo deve essere dello stesso ordine di grandezza di quello dei prodotti di uso quotidiano, come un tavolo, una lampada, un mobile.

Ricordiamo, tra gli esempi anticipatori di un'arte moltiplicata, la progettazione di una sveglia denominata "Ora-X" progettata nel 1945 ed entrata in produzione nel 1963 (presente nella collezione del MoMA), la creazione di una "Macchina inutile" in alluminio nel 1956, e la partecipazione alle edizioni di arte seriale, create da Daniel Spoerri a Parigi nel 1959, con l'oggetto "Strutture continue".

Prima di trattare le caratteristiche di quest'ultima creazione è opportuno far notare che qualcosa di molto simile viene realizzato già nel 1948. Nella mostra personale alla galleria Borromini di Milano è, infatti, presente un plastico di ottone smaltato nero composto da 15 quadrati. La struttura creata con piegature a novanta gradi di parti del foglio metallico ha le sembianze di una scultura priva di alcun orientamento di base, la cui organizzazione e disposizione compositiva ricorda certe aggregazioni strutturali riconoscibili in natura.

Le Strutture continue sono, invece, un insieme di strisce di alluminio anodizzato, piegate al centro in modo da formare un angolo retto. Ogni elemento ha poi un taglio sottile parallelo alla piegatura che dal centro va verso il bordo esterno. Queste fessure permettono di combinare i moduli tra loro ad incastro, creando forme sempre diverse. I moduli ad "elle" possono variare in dimensione senza per questo perdere le caratteristiche strutturali e topologiche che li contraddistinguono.

Le forme finali che si ottengono con l'aggregazione di questi moduli sono sempre diverse, poiché la soggettività con la quale ciascun fruitore può creare delle composizioni comporta una variabilità non deterministica nella morfologia finale della struttura.

Munari parla di "natura inventata", perché le composizioni si aggregano per combinazioni nello stesso modo in cui si sviluppano e crescono in natura certe strutture, influenzate nella loro evoluzione da molteplici condizionamenti ambientali.

Le Strutture continue non possono essere considerate scultura in senso tradizionale, non possiedono un alto o un basso, un davanti o un dietro, un lato sinistro o un lato destro, nulla è fisso e invariabile, la struttura è componibile all'infinito e può svilupparsi nello spazio teoricamente senza fine.

L'oggetto, sostiene l'autore, è "qualcosa che sta tra il mondo minerale e la scultura". [1]

Queste realizzazioni hanno le caratteristiche di un'opera aperta (oggi potremmo classificarla a codice sorgente aperto, "open-source") perché non è presente in alcun modo la personalità dell'artista. Vengono forniti i moduli e le regole di composizione, ma nulla è delimitato, circoscritto. L'arte, quando è troppo definita, costringe lo spettatore ad una forzata estraneità rispetto all'opera stessa, la sua partecipazione è limitatissima, non vi è coinvolgimento. Munari ci suggerisce, invece, che, solo attraverso il processo concreto del fare, il pubblico può vivere un'esperienza (una user-experience, diremmo oggi) e capire in profondità le medesime tematiche sperimentali ed estetiche che l'artista ha cercato di comunicare.


[1] Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966




 
Colori dentro strutture frattali



 



Curva di Peano 1974
Coll. priv.



Abbiamo già scritto di come Munari si sia speso e adoperato nel cercare di replicare certi fenomeni di sviluppo strutturale presenti in natura (cristalli, nervature di una foglia, arborescenze) all'interno del linguaggio dell'arte, cercando di fornire metodo e regole compositive ad uno spettatore che non può rimanere passivo all'interno di un processo di fruizione che è contestualmente anche conoscitivo.

Munari nel 1960 scrive e pubblica un libro per il raffinato editore milanese Scheiwiller dal titolo "Il quadrato". La forma è chiaramente quadrata, una scelta decisamente fuori dall'ordinario per l'editoria del tempo, e sulla copertina, al centro, spicca un quadrato nero su sfondo bianco. Sembra che l'autore voglia ripartire dall'azzeramento della pittura ad opera del pittore russo Kasimir Malevich e da una delle figure più elementari della geometria (un secondo libro per lo stesso editore viene pubblicato nel 1964 ed esplora un'altra forma primaria, quella del cerchio) per ragionare intorno alle strutture visive che sono alla base della grande parte dei lavori della natura e dell'uomo: un cristallo di fluorite, la spirale logaritmica di una conchiglia, un cubo di pirite, l'arco romano, la pianta di una piramide, l'uomo vitruviano di Leonardo. Il libro è ricco di spunti e di osservazioni stimolanti e riporta a pagina 24 una scheda dedicata alla Curva del matematico italiano Giuseppe Peano (1858-1932). Forse il quadrato in primo piano sulla copertina richiama proprio questa curva, apparentemente priva di senso e fortemente non intuitiva, che ha la proprietà, una volta tracciata per iterazioni algoritmiche successive, di poter riempire in modo fitto lo spazio, ad esempio lo spazio di un quadrato, fino al punto di colorarlo completamente di nero.

Proviamo ora a spiegare meglio l'interesse inusuale di Munari verso questo strano oggetto teorico che in matematica viene definito una curva, grazie alla quale l'artista decide di ritornare alla pratica della pittura. Anche questa volta, come nel caso del ciclo dei Negativi-positivi, la serie delle pitture denominate "Colori nelle Curva di Peano" viene realizzata con prodotti acrilici, difficilmente alterabili nel tempo, e con stesure piatte ed uniformi di colore.

L'interesse dell'artista per le proprietà della curva di Peano sono contemporanee alle ricerche del matematico polacco-francese Benoît Mandlebrot, diventato famoso alla fine degli anni '70 come fondatore di una nuova geometria (frattale) e come creatore di oggetti matematici denominati per l'appunto "frattali", grazie ai quali, con l'aiuto delle tecniche consolidate della grafica computerizzata, è possibile ottenere immagini di intensa bellezza.

Il primo punto di contatto è dato dal fatto che la curva di Peano è essa stessa definibile come una curva frattale; il secondo punto in comune è che questi nuovi oggetti di matematica frattale sono perfetti per descrivere lo sviluppo naturale di elementi del paesaggio come le coste di un'isola, le superfici ruvide di una montagna, o anche singoli elementi come fiocchi di neve, broccoli o un vaso sanguigno. Infine, la geometria di Mandelbrot, superando i limiti di quella classica euclidea, ben si presta alla descrizione di una realtà naturale che sempre comprende asperità, ruvidità, caos e complessità. Tutti temi che in seguito alla nascita delle geometrie non euclidee hanno influenzato i lavori di molti artisti. Munari non è esente da questo fascino ed i rimandi ad una certa matematica fortemente innovativa sono espliciti in opere come il Concavo-convesso (1947), le Strutture continue (1959) o le Curve di Peano (1968).

La curva è un oggetto filiforme (senza spessore, unidimensionale) che viene definito in uno spazio (topologico) non stabilito a priori. Nel caso dello spazio euclideo la curva è definita come il cammino di un punto che si muove con continuità su di un piano.

La curva di Peano è una curva limite (tecnicamente, in matematica, è il limite convergente di una serie di funzioni) e può essere descritta per mezzo di una procedura ricorsiva (in informatica una procedura è ricorsiva quando contiene nel "corpo", cioè nella sequenza delle sue istruzioni, una invocazione di se stessa, in altre parole è una procedura che esegue un calcolo iterando se stessa un certo numero di volte).

Va tenuto presente che la costruzione originale di Peano è solo analitica, cioè espressa attraverso dei formalismi matematici e non grafici, di conseguenza non è mai stata visualizzata in forma grafica dal matematico italiano. Questo è uno dei motivi per il quale esistono delle rappresentazioni più note della curva di Peano, come la curva di Hilbert (1862-1943) o le curve del matematico polacco Sierpinski (1882 - 1969).

Ma quali proprietà esprime la curva di Peano? Essa non è affatto intuitiva ed esprime persino un paradosso.

La curva di Peano si ottiene attraverso una definizione ricorsiva ed iterando un procedimento la si può immaginare come una curva spezzata che ha la proprietà di infittirsi ad ogni iterazione, mantenendo inalterate le proprie caratteristiche ad ogni variazione di scala (ad ogni passo di iterazione), fino a riempire completamente lo spazio delimitato su cui è definita.

Ad esempio, se cerchiamo di immaginare questa linea all'interno di un quadrato possiamo notare che essa si muove così tanto da ricoprirlo interamente (ecco il paradosso di Peano: un oggetto mono-dimensionale riempie completamente un spazio bi-dimensionale).

Allo stesso modo le curve di Sierpinski costituiscono una successione di curve piane chiuse definite per ricorrenza che dopo n iterazioni del procedimento (con n tendente ad infinito) riempiono completamente la superficie del quadrato unitario sul quale sono definite. Per spiegare con altri termini, esse descrivono un cammino chiuso contenente ogni punto interno di un quadrato, riempiendo completamente quel quadrato.

E' verosimile che Munari abbia scelto la curva di Sierpinski perché graficamente più interessante di quella di Hilbert (che da un punto di vista estetico appare decisamente più banale).

Le iterazioni sovrapposte della curva di Sierpinski sono, dunque, molto interessanti e consentono di definire una griglia di strutture che possono essere riempite di colori.

Spesso Munari utilizza dei particolari della curva, per esempio, in figura il quadrante in alto a sinistra della curva di ordine da 1 a 3 (cioè la curva costruita iterando al massimo tre volte la procedura).

Ad ogni iterazione la curva si infittisce e lo spazio del quadrato di partenza viene partizionato in modo più fine.

Sulla struttura frattale della curva l'artista inserisce, in base alle proprie esigenze compositive ed estetiche, un ritmo di colori.

Qui entra in gioco l'arte e l'occhio gioca la sua parte. Chi scrive non ritiene che esista un metodo algoritmico di colorazione degli elementi ottenuti dalla suddivisione del quadrato, e nemmeno che esista uno schema che si ripete nell'utilizzo dei colori. Insomma le opere Colori nella curva di Peano non sono un esempio, contrariamente a quanto molti ritengono, di arte programmata. Munari colora seguendo dei ritmi, o meglio delle aritmie di colori.

Pertanto non esiste alcuna relazione scientifica tra l'entità matematica della Curva di Peano nella versione di Sierpinski e la composizione cromatica di Bruno Munari (che è un problema estetico).

L'artista ci fa osservare con ironia, nel cartoncino di presentazione della mostra nel 1974 alla galleria Sincron di Brescia che "la mia proposta, assolutamente superflua alla speculazione matematica, ma curiosa sotto l'aspetto estetico, sta nel porre determinati colori nelle zone delimitate dalla linea. Di fronte a questa proposta l'osservatore è spinto a immaginare quale potrà essere il colore della superficie quadrata quando la curva rimpicciolendosi e moltiplicandosi l'avrà riempita quasi tutta. Non è necessario pensarci continuamente, basta una volta ogni tanto". [1]

Una volta che il quadrato è partizionato, il tracciato della curva può anche svanire, rimangono i colori, colori nella curva di Peano, colori dentro geometrie frattali.


[1] Bruno Munari, scritto allegato all'invito della mostra personale "Curva di Peano", galleria Sincron, Brescia, 1974




 
Aritmie di colori



 



Variazioni arbitrarie sulla curva di Peano 1969
Coll. priv.



Abbiamo visto nella sezione precedente che la Curva di Peano-Sierpinski è stata adoperata dall'artista come struttura, come supporto grafico per una composizione cromatica. Un analogo procedimento di colorazione viene intrapreso da Benoît Mandelbrot nel momento in cui, sviluppando al centro IBM, programmi di elaborazione di immagini, riesce ad ottenere forme complicate, affascinanti, barocche. Il colore torna utile anche al matematico francese per evidenziare alcune caratteristiche delle immagini ottenute.

Munari aggiunge arbitrariamente, sul reticolo di base, delle linee di collegamento (che chiama percorsi visivi) tra gli elementi della curva di Peano. Tali percorsi non hanno nulla a che fare con la curva di partenza, che finisce per rimanere in background o addirittura per scomparire. Questa operazione dà molta libertà all'artista. La griglia frattale ottenuta dalla curva, pur lasciando traccia di sé, viene solo accennata per dare spazio a percorsi, a ritmi di colori o a sperimentazioni percettive che hanno molto in comune con le ricerche del tedesco Josef Albers, un autore al quale Munari si sente molto affine metodologicamente.

Talvolta succede che l'eliminazione dal disegno del tracciato della curva consente di ottenere effetti cromatici di profondità; in alcune realizzazioni certi rombi sembrano sospesi, come appartenenti ad un piano diverso da quello del fondo.

La crescita frattale della curva, ad ogni iterazione dell'algoritmo, rende piuttosto evidente la proprietà di similitudine tra il tutto e le sue parti, perfino quelle infinitesimali.

E' interessante notare che il termine frattale deriva dal latino fractus che significa frangere, rompere. Pertanto, frattale significa irregolare, ruvido ("la realtà è ruvida", ebbe a dire Mandelbrot), ma allo stesso tempo è anche una struttura geometrica che può essere suddivisa in parti più piccole dove ciascuna è una copia, in dimensioni ridotte, dell'intero (proprietà che in matematica si definisce di auto-somiglianza).

Ecco che il frattale ha dunque, al suo interno, irregolarità (rugosità) e simmetria, caos e disordine, un dualismo tanto caro a Munari.

Inoltre, è appassionante notare che queste strutture si possono rappresentare anche attraverso sistemi formali adoperati in altre discipline scientifiche (come la biologia), basati su sequenze di caratteri (stringhe) ed una collezione di regole ricorsive. Sistemi utili a simulare in modo realistico la crescita modulare di organismi viventi naturali, come ad esempio le piante.

Riassumendo, la curva di Peano è in grado di riempire paradossalmente uno spazio, è una linea chiusa senza intersezioni.

Tale curva attira l'attenzione di Munari molto probabilmente per il fascino innovativo di una matematica che crea forme che non esistevano prima, una matematica che nasce dalla mente dell'uomo, per pura speculazione.

Un altro motivo di attrazione è verosimilmente dato dal fatto che tale curva ha una duttilità di utilizzo, dovuta alla proprietà di auto-somiglianza, che consente all'artista di estrapolare particolari e sviluppare ritmi coloristici, forse anche delle aritmie, tanto sulle forme più elementari della curva, quanto su quelle più complesse.

Munari indaga e classifica, come mostrato nello studio riprodotto, la percezione del colore distribuito all'interno di una struttura frattale.





   
 
Il mare come artigiano



 





Oggetto restituito n.3 e n.4
della serie Il mare come artigiano 1995
Courtesy Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo, Milano
Fotografia di Atto Belloli


In precedenza abbiamo menzionato la mostra personale del dicembre del 1951 nella quale Munari espone una serie di Oggetti trovati presso la Saletta dell'Elicottero del Bar dell'Annunciata a Milano. In quegli anni l'artista progetta di organizzare, in accordo con Bruno Grossetti, storico gallerista milanese nonché proprietario del bar-galleria, alcune mostre un po' particolari. Nella prima manifestazione presenta, come abbiamo già elencato, una serie di materiali e di oggetti. Grossetti ricorda in questo modo quell'evento: "Nel piccolo catalogo Munari spiegava come la mostra si proponesse di aiutare a vedere l'arte in ogni sua possibile manifestazione, comprese le cose semplici, a volte molto belle, che sovente ci passano sotto lo sguardo e alle quali non badiamo neppure. Era una curiosa esposizione che divertiva i visitatori e interessava gli artisti; rimase allestita per parecchio tempo e fece parlare di sé, riscuotendo notevole successo. Munari ne fu molto soddisfatto e proseguì nei suoi intenti con l'allestimento di una seconda mostra che chiamò «L'arte e il caso»".

L'elenco completo degli oggetti in mostra viene riportato sul bollettino N.1 del Movimento Arte Concreta. L'elenco di alcuni di questi oggetti, così come li descrive l'autore, ci permette di avere un'idea precisa dell'allestimento certamente inconsueto:

- brandelli di manifesti
trovati in Rue Monsieur le Prince, a Parigi, sopra una staccionata di legno, un poco scoloriti dalla pioggia

- un frammento di albero
trovato in via Colonna, a Milano, da un rivenditore di legna e carbone. Il frammento d'albero era buttato da una parte perché non considerato utilizzabile. Vorrei quello lì, dissi. L'uomo me lo pesò, pagai e me lo portai a casa. Lo tenni qualche anno in terrazza a cicatrizzare i tagli freschi, ora è bello come un paesaggio visto dall'aereo

- una forcola di barca veneziana
trovata a Venezia. L'avevo vista prima attaccata alla gondola, bella come un Archipenko, le sue forme dettate dalla funzione del remo. Bianconi mi indicò il luogo di nascita e la trovammo, appena nata, tutta ancora unta di olio cotto

- una corteccia di sughero
trovata sulla spiaggia di Marina di Campo, a leccarla sa ancora di sale. E' un progetto di isola modellato e levigato con grande cura del mare

- un sasso
trovato in via Tarquinio Prisco, a Milano. Ce ne saranno stati alcuni milioni, grandi e piccoli, di tante forme. Io non sono stato li a passarli tutti, ho scelto questo, piacevole da tenere in mano come forma e peso, con quella graziosa fossetta

- una radice
anche questa trovata all'isola d'Elba. Erano le sette di mattina, nessuno era sulla spiaggia bianca e fredda. Violinista fossile, danzatore colpito dal fulmine, scheletro di dervisci, cos'è mai questo oggetto? una radice secca

- una rete metallica
trovata in via S. Martino, a Milano. Modellata da una bomba, corrosa dalle intemperie

- corde annodate
trovate a Napoli, schiacciate dalle ruote dei veicoli, non hanno perduto le graziose movenze date loro dai molti nodi, dagli inestricabili nodi

- sassolini
trovati sulla spiaggia di Albisola, bellissime forme modellate con pazienza dalle onde contro la cartavetrata della spiaggia

- cortecce di platani
trovate in corso Sempione a Milano. Sono tutte appiccicate contro i tronchi degli alberi, alcune sono appena sollevate, croste di ferite quasi umane, lebbra, fanno quasi paura, nei sogni


L'architetto Ernesto Nathan Rogers, sempre sul Bollettino n. 1 del Movimento Arte Concreta, commenta con giudizi favorevoli la nuova performance espositiva: "Se fosse un musicista, Bruno ci inviterebbe a un concerto di maree, di piogge, di sete fruscianti, di stelle cadenti, di bisbigli. E ci farebbe riudire voci che ci erano passate accanto mentre stavamo distratti. Poiché il suo occhio è ancora più vigile dell'orecchio, ecco che ha trovato per noi alcuni oggetti smarriti in mezzo alla nostra vita quotidiana o in quella, non meno inconsapevole, della natura. Ne diventiamo coscienti. Ci stupiscono sempre, spesso ci interessano, talvolta ci piacciono. E' opera di un'artista che una volta tanto non ci comunica il mondo delle sue creazioni, ma quello delle sue scoperte. Ed è anche l'opera d'un pedagogo: un insegnamento a guardare e un pochino anche un rimprovero alla nostra pigrizia mentale. Mi piacerebbe che questa raccolta di oggetti, i quali tutti uniti formano in paradigma l'inafferrabile infinito di Munari non andasse dispersa". [2]

Non tutti gli interventi però sono positivi. Il critico del Corriere della Sera Leonardo Borgese commenta così la mostra: "Nella Saletta dell'Elicottero si è inaugurata da qualche giorno la mostra della Collezione Oggetti Trovati di Munari. Le mostre all'Elicottero sono organizzate dal MAC, e questa collezione che "vuole essere un segno di libertà e di profonda ricerca" comprende un frammento di albero, un sasso... ecc. Bravo Munari! E così tu e il MAC sotto sotto volete ridurci a critici della spazzatura, eh?..." [3]

Le incomprensioni da parte della stampa italiana e la cecità verso le mostre del M.A.C. è quasi totale: i suoi esponenti è come se non esistessero o, quando vengono presi in considerazione, sono derisi. Ciò non impedisce all'artista di procedere nella sua ricerca. In molte recenti fotografie dello studio di Munari si può notare un grande mobile vetrinetta in cui sono raccolti alcuni oggetti trovati sulla spiaggia. L'idea di una mostra sullo specifico tema del mare come artigiano non troverà però mai una galleria disposta ad ospitarla. Nasce, invece, nel 1995 un libro edito da Corraini Editore ed ancora oggi disponibile. In questo libro Munari racconta come nel 1953, in vacanza al mare, sulla spiaggia di Populonia Baratti (Livorno), egli dia inizio a questo gioco visivo e di recupero di oggetti modellati dal mare che da artigiano si trasforma in autore inconsapevole di straordinari e misteriosi oggetti di una bellezza certamente nuova.

"Tu butti qualcosa al mare, e il mare (dopo un tempo imprecisato e imprecisabile) te lo restituisce lavorato, finito, levigato, lucido o opaco secondo il materiale, e anche bagnato perché così i colori sono più vivaci". [4]

Qualche anno dopo, nel 1955 durante le vacanze estive alle isole Eolie, Bruno Munari procede con un altro esperimento performativo creando un Museo immaginario in seguito dell'esplorazione di un sito archeologico dove vengono raccolti frammenti di uso incerto e di origine sconosciuta, trasformati in spunti per composizioni di oggetti immaginari.

Con la raccolta di sassi, iniziata già negli anni '40, l'artista giunge alla pubblicazione di un libro per bambini dal titolo: "Da lontano era un'isola" edito nel 1971 per le Edizioni Emme. L'autore esplora le forme naturali dei sassi, le racconta con delle macro-fotografie creando dal nulla grotte, isole rocciose con castello annesso (un sasso che possiede queste caratteristiche fornisce lo spunto per il titolo al libro) e tanto altro. Interviene con il pennarello disegnando sui sassi piccoli elementi figurativi protagonisti di una storia tutta da inventare.

"Da lontano era un'isola" diventa nel 1985 anche una mostra di successo al Museo di Storia Naturale di Milano.

Munari, dunque, trova e ci propone oggetti di vario tipo: alcuni mostrano con humor relazioni inusuali, altri sono esemplificazioni delle strutture naturali. Egli afferma: "Quando l'artista osserva la natura è come se la natura comunicasse, attraverso la sensibilità dell'artista in quel momento, uno dei suoi segreti". [5]

"Ci sono oggetti che si fanno notare perché hanno qualcosa da comunicarti, ma subito non si capisce il messaggio. Tu conservi questo oggetto per anni finché un giorno, all'improvviso, ti rivela la natura di una forma o di una materia o di una struttura con le quali potrai comunicare quello che hai scoperto." [6]

Negli anni Munari realizza, partendo dagli oggetti trovati, opere che sotto la veste dell'ironia sono piccole operazioni concettuali che hanno solo alcune affinità apparenti con la poetica dell'object trouvé di Marcel Duchamp o del ready made di Man Ray.

L'oggetto trovato quasi sempre viene cercato per le sue caratteristiche di sorpresa: un pennello con le setole intrecciate a formare delle trecce a cui Munari lega dei fiocchi rosa, diventa una "Pennellessa" dai modi vezzosi, dalle forme sinuose; una radice raccolta durante una passeggiata nel bosco diventa, per le sue caratteristiche morfologiche, un "Polpo di montagna". Una tromba militare schiacciata da un rullo compressore, appiattita, ridotta alle due dimensioni, non può più dare evidentemente il segnale della carica, di conseguenza diventa una "Tromba della pace"; l'ironia ci conduce ad un oggetto inutile, la cui funzione è estetica e speculativa.

Gli oggetti trovati hanno delle affinità con i suoi divertimenti linguistici, ambigui disturbi semantici, dove l'equivoco non è più visivo ma verbale, dove i contesti semantici cambiano in un attimo: un passero saltava tra i merli del castello / il piccolo anarchico inglese uscì a mezzanotte con la bombetta / Pitagora, vieni a tavola!

Tali divertimenti diventano spesso delle vere prove di intelligenza con le quali Munari sollecita il proprio interlocutore, anche quello casuale, quasi a misurare, attraverso i tempi di reazione, le capacità intellettuali altrui: "il Polpo è stato trovato nel silenzio dei boschi di Monte Olimpino, vicino a Chiasso!".


[1] Bruno Grossetti, Il mercante dell'Annunciata. Confessioni e memorie, Mazzotta, Milano, 1988
[2] Ernesto Nathan Rogers, Trovare è la conseguenza di cercare, Bollettino Arte Concreta N. 1 , 1 novembre 1951
[3] Leonardo Borgese, Corriere della Sera, 14 dicembre 1951
[4] Bruno Munari, Il mare come artigiano, Corraini, Mantova, 1995
[5] Aldo Tanchis, Bruno Munari, Idea Books Edizioni, Milano, 1986, pag. 70
[6] Bruno Munari, Catalogo della Mostra Antologica a Palazzo Reale, Electa, Milano, 1986, nota di Bruno Munari a pag. 29




 
L'equilibrio attraverso la rottura



 



Senza Titolo 1982
Coll. priv.



Il collage che è stato scelto per questa scheda illustra in modo chiaro il tema di questa sezione. L'essenzialità della composizione, la semplicità del materiale impiegato e l'elemento di "rottura" visiva, rappresentato da una linea irregolare dai bordi frastagliati, sono elementi che riassumono, nel brevissimo tempo di uno sguardo veloce e sapiente, tutto quanto abbiamo cercato di illustrare all'interno di questa sezione.

Il collage viene realizzato tagliando quattro rettangoli, due sono ottenuti da carta da pacchi marrone chiaro, uno di color marrone scuro ed uno ocra. Non vi è simmetria nella disposizione dei cartoncini colorati. In una lettura da sinistra a destra lo schema ritmico dei colori è: 2 - 1 – 1. L'ultimo rettangolo ha una ampiezza ridotta che aggiunge alla composizione un ulteriore elemento di asimmetria.

Osservando il lavoro si percepisce una linea che percorre tutta l'opera e che ha la forma di una frattura; essa attraversa i primi di due rettangoli ad altezze differenti, successivamente si sviluppa in modo continuo, fino ad ampliarsi nell'ultimo rettangolo, in una forma che ricorda quella naturale di un delta di un fiume.

Le strappature sono realizzate con cura e mostrano lo strato interno di ciascun cartoncino che ha, come è ovvio immaginare, una pasta di colore più chiaro. L'effetto visivo è simile a quello di un bordo multistrato, un effetto oggi molto utilizzato nella comunicazione grafica, in passato impiegato a lungo sia da Munari sia da altri autori come l'artista dada tedesca Hannah Hoch, annoverata tra i pionieri della tecnica del collage e del fotomontaggio.

La regolarità e il ritmo dei rettangoli vengono spezzati, come si diceva, da una frattura interna che mostra tutta la rugosità e la ruvidezza di percorsi irregolari, non lineari. L'azione dell'artista, attraverso la rottura della carta, introduce nell'opera un elemento di accidentalità che ravviva il ritmo coloristico.

Se fosse una partitura la sequenza dei rettangoli potrebbe esprimersi come la base armonica di un ritmo, mentre la linea irregolare potrebbe equivalere alla partitura più fantasiosa di uno strumento solista.

Dagli estremi contrapposti di una forma esatta (il rettangolo) ed una frattura che si insinua, "rompendo" la perfezione geometrica, nasce un equilibrio compositivo.

Dalla "regola del caso" di origine dada si passa, in Munari, al contrasto concomitante di "regola e caso". La congiunzione "e" concretizza un cambio di pensiero e di paradigma.




 
Come sfruttare un errore nella creazione di tessuti, immagini evanescenti e collage pittorici

 



Collage 1982
Coll. priv.



Il collage che prendiamo in considerazione al termine di questa sezione è stato creato con ritagli di stoffe provenienti dalla serie di tessuti realizzati dall'artista nel 1983 per l'azienda Assia di Giussano (Milano). I tessuti hanno nomi rispondenti al motivo del disegno: nevicata, pioggerella, licheni, muschio, platano, rampicante, ardesia, giungla, temporale.

I disegni sulle stoffe hanno un motivo ornamentale che si ripete, come ad esempio piccoli rombi neri o grigi, linee verticali, sequenze di pois.
Sullo sfondo macchie e spruzzi si ripetono invece in modo irregolare.

Ancora una volta l'elemento aritmico, aleatorio, si scontra con la prevedibilità di una sequenza decorativa, simmetrica ed ordinata.
Ordine e disordine, regola e caso.

L'amico gallerista Armando Nizzi era solito raccontare l'episodio di quando Munari un giorno, entrando in fabbrica per verificare il lavoro di realizzazione di alcuni tessuti, scoprì che da una macchina per la stampa fuoriusciva, a causa una rottura in un tubo, una goccia di acido macchiando in modo casuale il tessuto.

L'errore, da elemento imprevisto e disturbante, viene subito tramutato in un elemento determinante nella creazione di un tessuto che, grazie proprio a questa imperfezione del processo produttivo, invece di possedere un motivo standardizzato, si caratterizza per un disegno unico ed irripetibile, lungo quanto il rotolo stesso della stoffa.

La casualità qui è introdotta da un meccanismo di sgocciolamento che in realtà a Munari è già noto, avendolo sperimentato nella "Fontana a 5 gocce d'acqua" realizzata a Tokyo nel 1965. Ricordiamo che nello specchio d'acqua ferma di questa fontana l'artista progetta di far cadere con ritmi imprevedibili, ma in punti prestabiliti, 5 gocce d'acqua. Le onde provocate dall'impatto si infrangono tra di loro, provocando disegni mutevoli sulla superficie della vasca. Luci e microfoni subacquei diffondono immagini (moirè) e suoni. Lo spettatore vive una esperienza poetica multi-dimensionale: spazio, tempo, suono, casualità, regole, immagini rarefatte e dinamiche.

Con i ritagli presi dai campioni di questi tessuti Munari realizza una serie di collage che chiama per l'occasione "Prove d'autore" e che presenta al pubblico d'arte nella galleria Sincron di Brescia nel maggio del 1983.
Dal design all'opera d'arte, dall'arredo per interni alla mostra personale. Grazie ad un repentino cambio di contesto e di utilizzo il passo è breve; ideazione, metodi progettuali e intenti estetici, invece, rimangono comuni.

Il progetto diventa arte.





Testi: Luca Zaffarano, 2015 - 2016





complicating is easy, simplifying is hard
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